Monday, June 13, 2011

Shinseikai Stars: Tulliobot

Da quando frequento il Dojo ho visto tante cose. Belle. Sorrisi, lacrime di commozione, abbracci, botte (sempre in amicizia), momenti di ilarità e momenti quasi drammatici. Un campionario sinusoidale di vita dal bianco al nero, passando per il giallo, il blu, il verde ed il marrone.
E, come ogni volta, non vedo l'ora di sentire il Sensei pronunziare la rituale frase "Entrate, brutti!".
In effetti, vedendoci, non siamo un gran che. L'intenzione del Maestro non è di offendere ma - bensì - di stimolare la crescita interiore, e migliorarsi.
Il Sensei squadra la platea, pensa (in effetti lo siete, ma non lo ripeterò) e si avvicina a Tulliobot, bisbigliando qualche comando in fenicio, probabilmente la struttura della fatica della prossima mezz'ora.
Come?
Non sapete cosa sia un Tulliobot?
Ve lo spiego io, se avete due minuti e mezzo.
  • Tulliobot è un androide piccolo e micidiale, corporatura media, capello nero, camicia bicolore (a volte), che ha solo un pulsante: ON. L'inventore si è dimenticato del pulsante di spegnimento. A volte il Maestro non ha altra risorsa per spegnerlo se non quella di togliere la spina, soprattutto nella fase di riscaldamento dinamico.
  • Tulliobot ha due karategi; uno a maniche lunghe e uno a maniche corte, ma non vi fate ingannare. Mena in egual misura con tutti e due.
  • Tulliobot - essendo un organismo quasiumano - non suda. Alle volte è possibile vedere qualche microscopica macchiolina intorno a lui, ma non è sudore. E' olio di macchina multigrade.
  • I Tulliobot hanno capacità di analgesica autoriparazione. Quello che abbiamo noi, recentemente, ha avuto un incidente sul ricettore olfattivo, ma la settimana dopo era già in allenamento.
  • Il nostro Tulliobot è una cintura nera. Significa che quando c'è il Maestro ci spinge al 110%. Quando non c'è, va direttamente al 120%.
  • I Tulliobot non hanno il minimo senso del rancore. Quando ritornerò al Dojo, domani (deità permettendo), avrà analizzato questo scritto e non mi inseguirà al fine di abbreviarmi la vita (vero Senpai?).
Lo scorso anno accademico mi si avvicina un losco figuro - giacca a quadri, cravatta, borsa in pelle - che vuole parlare con il Sensei. Il Sensei è fuori per lavoro, rispondo. Con fare furtivo mi bisbiglia di uno scambio: il nostro Tulliobot contro due nuovissimi robot inorganici Panasonic, completi di software Karate 1.1 e Preparazione Atletica 3.2 e garanzia di dieci anni on-site, iniziando a recitarmi un pistolotto di prevendita sul Time-to-Value, sul Total Cost of Ownership e sul Vendor Lock-in. 
Lo guardo sdegnato. Di Tulliobot così non ne producono più. Me lo tengo, ci mancherebbe proprio. 


Wednesday, June 1, 2011

Mirco

Il giovane e segaligno poeta staccò la penna, intrisa d’inchiostro e sudore, da quello che una volta era un virgineo foglio di carta, elegante e spessa, quasi avesse un nerbo e carattere preciso invece di comparir mero supporto al pensiero altrui. Il suo respiro era affannato, e sussultando cercava di sugger l’aria e riposar membra che però non avevano corso, né faticato sui campi riarsi dall’estate.
Non sono un poeta, pensò. Sono uomo di scienza.
La stanchezza del ragazzo, però, era reale, tanta la passione nel far danzare i propri pensieri e celebrarli sul palco dell’arte di raccontar cose che vengono dal proprio dentro e farle capire a chi risiede stabilmente nel proprio fuori.

“… Ma sedendo e mirando - interminato
Spazio di là da quella, e sovrumani
Spazi …”
 
Una sinfonia di parole, sequenze che si intrecciano, si guardano e si rifiutano, si corteggiano e si amano, si fuggono e si cercano, e si illuminano l’une con le altre. Le parole a formare una scala a pioli dove ogni passo ci affatica ma ci rende più vicini alla meta, al tutto.

Il ricercatore e presunto cantore non era soddisfatto, però. Un emistichio fuori posto, subito cancellato. Una parola, come una nota in un dorico assolo che poteva essere omessa, o forse legata. “sovrumani Spazi”, ripensò il solitario artista. Ecco il passo di danza sbagliato! Le labbra dello scrittore fremettero d’impazienza, quasi ad anticipare l’elegante movimento del pennino che corresse, sulla filigrana, il verso incriminato e continuò lo scritto ed il viaggio interiore in:

 
“… Ma sedendo e mirando, interminato
Spazio di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura.”

“Grazie, o dea dell’arte e dell’amore” pensò, grato delle parole ispirate che continuavano a rimaner vive anche dopo esser state chiuse e sigillate nel foglio di carta a perenne sfida contro la memoria e il tempo. La gratitudine per sé e per la propria musa ispiratrice portò il raccontatore in uno stato di ebbrezza, dove le parole quasi si inanellavano senza sforzo alcuno, e con continua attenzione per non rompere la preziosa ma fragile sequenza:

“Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio.”

Il vorrei-esser-un-cantastorie si concesse un piccolo lusso a cui, in genere, non era avvezzo: la rilettura di quanto scritto fino a quel momento. La composizione era soddisfacente, le parole giuste, giusto il tono. Non si beava mai di quanto era da sé composto, cercava in continuazione il perfettibile, la piccola magagna, l’asperità da limare, il concetto da accorciare, l’emozione da cantare, l’erbaccia in agguato in un cespuglio di lavanda e rose. E non riuscì a trovarlo, dannandosi per la sua emotività e come sempre capendo che ciò rappresentava la spinta a scrivere, la discesa su cui iniziare a correre per far andare veloci le parole tanto quanto i pensieri.

Ma c’era qualcosa.

Non riuscì a capire subito se era un metter o un levare, un troppo o un poco, un vuoto o un pieno. Si accorse troppo tardi di una goccia di sudore che cadde sulla carta, fortunatamente mancando la propria scrittura. L’acqua evaporò rapidamente, attirando l’attenzione del letterato. “L’acqua, madre d’ogni bene.” pensò.
L’acqua, la vita, la sua gioventù, le passeggiate in riva al mare, insieme ai suoi pensieri e la sua voglia di fuggire e salpar per nuove rotte. Il mare.
L’artista-ricercatore riprese la penna e vergò, di getto, il foglio concludendo il proprio lavoro:

“Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.”

E, dopo la poesia, l’infinito silenzio.