Sunday, July 4, 2010

Enrico.

Ho sempre sentito parlare di questo Enrico dagli studenti del Dojo, a vario titolo e con differenti impressioni, e l'unica cosa certa è che non sono riuscito mai ad incontrarlo. Non è su Facebook, non cinguetta su Twitter, non lascia traccia sui blog, ed esiste solo uno striminzito profilo sulle biografie dei professori associati dell'Università di Roma. Un dottore. Di quelli che curano i malati. Che frequenta il Dojo, e che non riesco ad incrociare.

Chissà come sarà. 

Sarà un fighetto figlio di papà, con macchina SUV al seguito e la falsa untuosità dei ricchi.
Ogni volta che arrivo al Dojo sento la sua presenza, come un odiato ospite che si è appena alzato dalla tua poltrona preferita, lasciando la sua impronta ed il suo odore, e facendo perdere rapidamente le sue tracce.
Inizio ad odiarlo, io.

Irene parla di una persona tranquilla, con occhi tristi, non particolarmente ciarliero, con un'aria da nobile. Lo dicevo. Un fighetto.

Quando arrivo nel parcheggio del Dojo spero - ogni volta - di notare una macchina nuova, non appartenente alle solite che scandisco con gli occhi quando arrivo in anticipo. E cioè sempre. Immagino che lui arrivi sempre in ritardo, con quell'espressione da finto cane bastonato.

Arduino lo descrive come uno che cammina silenziosamente, con passo controllato, quasi volesse confondersi con la selva di rumori che lo circondano. Lo sapevo. Uno snob.

Al termine di una delle ultime lezioni sono uscito dagli spogliatoi per ultimo, lentamente, dato che la mia zoppia è stata aggravata da un breve kumite con il Sensei. Uno degli armadietti era chiuso. Ero sicuro, sicuro, sicuro che fosse il suo armadietto, e per un attimo la tentazione di forzarlo e di vedere quel che c'era dentro è stata più forte di qualsiasi pulsione io abbia mai provato. L'arrivo improvviso del Sensei ha rimandato l'occasione.

Lorenzo si riferisce a lui come una persona difficile da comprendere, e con la testa piena di pensieri. E quando - finalmente - riesce a risponderti, tu credi stia pensando ad un'altra cosa. Lo sapevo. Culturame dei miei stivali. 

Mi sono venute altre idee balzane in testa, oltre alla forzatura dell'armadietto. Indagare attraverso il Sensei sulla sua provenienza, ingaggiare amici per investigare sulle sue abitudini, persino corrompere Tullio per registrare su video una lezione che lo vede partecipante attivo e che immancabilmente mi vedrà impegnato in altre faccende. Ma nulla, Sensei e Senpai sono abbottonati, e non rispondono neanche alla più sottile delle domande.

Cico - attraverso il suo inguaribile ottimismo - mi racconta di una persona tutto sommato positiva, con prestazioni atletiche e concentrazione sulla media, che ogni tanto sorrideva alle battute e gli scherzi del dopo allenamento nello spogliatoio maschile. Lo sapevo. Un debole.

Più ci penso e più il sangue mi bolle al pensiero di questa specie di fantasma che non riesco a trovare. Gliela farei vedere io, a questo fighetto debosciato. Allora sì, che utilizzerei anca e spalla nei colpi. Lo prenderò. Lo prenderò e gli farò vedere chi è Edoardo Hyde. Ve lo giuro su quello che mi è di più caro: questo maledetto Enrico Jekyll ha le ore contate.

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