Monday, March 22, 2010

Il Match

Eccomi qui di nuovo.
Indosso il karategi lentamente, alla ricerca di un rito che non ho mai praticato. Il karategi profuma ancora di casa, di lontano, di quello che non mi è possibile raggiungere ora. La mia obi stride, ed emana sentore di allenamento, di lotta, di fatica, di traguardi prefissati e mai raggiunti. I rumori intorno mi giungono ovattati, come se avesse nevicato. Sento voci ed urla ed applausi, ma non riesco a riconoscerne l'origine o la lingua. 
La tensione fa male, sento di avere il fiato corto e mi convinco che il match deve ancora iniziare, che il dolore e la resistenza al dolore verrà dopo, e che devo utilizzare la tensione, e non subirla. Utilizzarla per concentrarmi e non per annegare nell'ansia.
I tentativi di svuotare la mente stimolano - evidentemente - gli emisferi cerebrali a sfogliare velocemente le diapositive dei ricordi, degli affetti, delle esperienze, come carte distribuite su un tavolo verde a cui non siede nessun giocatore.
Qualcuno mi dice che è ora di iniziare.
Lo seguo in un lungo corridoio che è leggermente più alto me, buio, dove le ombre dei miei accompagnatori sembrano un film in bianco e nero.
Esco alla luce dei riflettori che feriscono i miei occhi, ed anche se abbacinato intravedo le braccia delle persone che si muovono, e non sento alcun rumore. Dal bianco accecante le forme iniziano ad avere un senso: il ring, gli addetti ai lavori, i giudici, l'audience, l'arbitro che ha una faccia dura come il travertino, ma continuo a non sentire i suoni.
Mi indicano il mio angolo, la mia casa del dolore, seguito dai miei accompagnatori con il volto sfocato. Le figure mi parlano, io non capisco quello che dicono, ma annuisco e non so perché. Mi fanno avvicinare al centro del ring, vedo il mio avversario e l'arbitro. L'arbitro ha un volto ed un vestito, l'avversario no. Non è invisibile, e non è completamente visibile. L'arbitro ci rimanda ai nostri angoli.
Ding.
Il suono della campana, invece, riesco a percepirlo correttamente. E' ora dell'inizio. Mi avvicino, il match ha inizio. 
L'avversario scivola lateralmente e cambia guardia due volte, da hidari a migi a hidari, repentino. Io finto una parata con il sune. Non contento, finto un mawashi-geri gedan, e la seconda finta, inutile, fa partire l'avversario con un altro mawashi-geri gedan, che paro, e con un mae-geri a piena potenza che non riesco ad intercettare. Il colpo arriva come un maglio, la forza dell'intero corpo sullo stomaco mi toglie il respiro e lucidità, ed abbasso la guardia di qualche centimetro: l'avversario fa uno switch e mi sfiora la tempia sinistra con un calcio circolare jodan. Non capisco bene se sono riuscito a schivarlo oppure se sia un avvertimento dell'avversario, ma le ripetizioni di tsuki al petto mi ricordano che forse la prima possibilità a cui penso è sempre quella che conta. Un sabaki riesce a tirarmi fuori dalla combinazione letale che l'avversario consuma in velocità mentre il dolore al petto fiacca le ultime energie di questo round.
Ding.
Ding.
Ding.
Ding.
Riapro gli occhi, mi accorgo che il match era solo nella mia testa. Il dolore era immaginario. Il dolore era un sogno, il match era un sogno, tutto era un sogno. L'unica realtà è la campanella della sveglia. Sono solo le 6 e 03 di una mattina di primavera che tarda ad arrivare, grigia ed umida, e come tutti i sogni che iniziano e finiscono quasi immediatamente prima del risveglio, questo può essere ricordato. Non saprò mai chi fosse l'avversario, o il risultato del match. Non saprò mai cosa volessero dire queste immagini proiettate nella mente in una mattina che non prevedeva un match. Ed ecco che, semplicemente, l'intuizione si palesa: sognato, metaforico o vissuto, il match sarà sempre una prova da affrontare, e senza le mani sui fianchi.

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